martedì 4 dicembre 2007

Articolo su Andy Warhol, di Simona Clementoni

IL MITO E I MITI DI
ANDY WARHOL

di
Simona Clementoni

Affascinato dai miti della società dei consumi, alieno ad eccessivi moralismi, l’artista americano è uno dei massimi esponenti della Pop Art, una delle più importanti correnti artistiche del dopoguerra che, nata in Gran Bretagna alla fine degli anni ’50, si sviluppa soprattutto negli USA a partire dagli anni ’60. Questa nuova forma d’arte rivolge la propria attenzione agli oggetti, ai miti e ai linguaggi della società dei consumi. In un mondo dominato dal consumo, la Pop Art respinge ogni espressione dell’interiorità, cancella la psicologia individuale per guardare, invece, al mondo esterno, al complesso di stimoli visivi che circondano l’uomo contemporaneo. La Pop Art, dunque, attinge i propri soggetti dall’universo del quotidiano, in particolare dalla città americana e fonda la sua comprensibilità sul fatto che quei soggetti sono per tutti assolutamente noti e riconoscibili. L’artista non trova più spazio per alcuna esperienza soggettiva e diviene puro manipolatore di immagini, oggetti e simboli già fabbricati a scopo industriale o pubblicitario. La matrice delle immagini che possono essere assunte nel campo dell’arte è la città con il suo paesaggio artificiale, da cui l’oggetto viene prelevato con l’ottica neutrale ed asettica del sistema che lo ha prodotto. Al superficialismo delle tecniche di riproduzione, tipiche dei mezzi di informazione di massa, Warhol oppone un assoluto adeguamento quanto a intenzionale freddezza emotiva. “Io vedo…la superficie delle cose… mi limito a passare le mani sulla superficie delle cose”, dice Warhol. Egli, dunque, si avvicina all’oggetto con il suo splendente superficialismo, in un perfetto adeguamento ad un modello di vita standardizzata. All’unicità subentra la ripetizione, al prodotto unico Warhol sostituisce l’opera ripetuta, omologata e stereotipata che nasce dall’atteggiamento dettato dal dilagante consumismo. Egli cancella ogni profondità e i suoi quadri, i suoi ritratti diventano la celebrazione della superficie. Dentro ci sono le facce inespressive dell’uomo moderno sprofondato nella sua solitudine quotidiana, incidenti d’auto, nature morte di fiori, sedie elettriche, volti celebri o anonimi, riprodotti con occhio fenomenologico, nella totale assenza di un giudizio di valore. L’immagine prelevata, decontestualizzata dal suo ambito naturale, quello del consumo, viene riprodotta con gelida allegria attraverso il procedimento della serigrafia, la tecnica più consona ad una realtà tecnologica che tende alla moltiplicazione e al moltiplicarsi.
Secondo Warhol, l’arte deve essere “consumata” come un qualsiasi altro prodotto commerciale. Ecco perché ci presenta immagini “consumate”, ossia che “hanno già fatto notizia”, immagini divulgate dalla stampa e dalla televisione; la medesima immagine ripetuta molte volte, in piccolo o in grande e con colori diversi. A forza di vederla finiamo per riconoscerla senza osservarla. Essa trapassa nell’inconscio senza essere passata per la coscienza. Così vuole il sistema del consumo illimitato: infatti il giudizio stabilisce il valore e il valore ferma il consumo.
I ritratti di Marilyn o di Liz Taylor, con la bocca e gli occhi socchiusi ed ammiccanti, segno estremo di disponibilità, incarnano, dunque, il bisogno collettivo della consumazione della bellezza e del successo. E’ proprio questo che spiega il loro successo planetario ed intramontabile.La rivoluzione estetica di Warhol si attua anche nel campo del colore; egli, infatti, usa i colori sgargianti del rosso, del giallo, del verde mela, dell’azzurro elettrico e soprattutto del fucsia; colori sfolgoranti, esagerati che sottraggono realismo all’immagine, estraniandola. Sono proprio i suoi ritratti, quei corpi e quei visi disincarnati, estraniati ed appiattiti dal colore sontuoso, irreale e meccanico che, proiettando il tempo dell’istante nell’infinito dell’immagine massificata, collocano l’artista nell’Olimpo incorruttibile dei miti senza tempo.

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